L’esperienza di Franco in Albania – 2014

Michele carissimo,

a proposito delle mie personali impressioni circa il viaggio in Albania, temo di non aver nulla da aggiungere a quanto riportato da Maria e Donatella. Le ho lette ambedue e le ho trovate chiare, precise, vere. Sottoscrivo quanto abbiamo visto e fotografato convinto di non aver altro da aggiungere.

Ma sento doveroso metterti a parte delle mie personali considerazioni sui fatti e le persone incontrate che ancora scuotono il mio animo. Si, Michele, devo farlo a te, perché già sull’aereo, nei tuoi riguardi provavo uggia per avermi voluto partecipe in un viaggio che, di certo, non era una vacanza culturale e-o conoscitiva per luoghi e progetti futuri. Non ne vedevo il senso. Inoltre io sapevo come sono gli albanesi. Bugiardi, opportunisti, sfaticati. Non mi vergognai di dirlo al vescovo di Lezhe, il giorno che venne a trovarci per la messa settimanale. Si presentò come un prete qualsiasi, si chiama Ottavio Vitale, da 21 anni in Albania, ed è nato a pochi chilometri dal mio paese natio. Lui mi guardò con indulgenza e mi rispose di liberarmi dai pregiudizi sulle persone. 5 secoli di dominazione ottomana e 50 anni di tremenda, inumana tirannia hanno scavato solchi profondi nel comportamento di questi nostri fratelli. Non possono essere colmati in poco tempo. Dovevo osservare le persone come membri sofferenti del corpo di Cristo. Non l’ho rivisto più, ma lo ricorderò sempre. Ho cominciato ad osservare le persone con occhi diversi. Cominciando dalle prime che trovammo ad attenderci all’aeroporto: suor Gemma e suor Manuela, cui si aggiungerà suor Marisa. Mi sembrarono dolci e delicate maestrine d’infanzia capitate per errore in terra di missione. Mi sbagliavo in pieno. Scoprirò che sono partecipi, creative, infaticabili. Veramente toste. Nella loro apparente debolezza il Signore esercita la sua potenza. Sono sostegno e riferimento sociale ed economico per tante persone. Laici e parroci. La nostra stessa esperienza in Albania non avrebbe avuto gli stessi risultati senza di loro. Al mattino le suore ci portano a Lezhe. Guardo le persone ancora condizionato dai pregiudizi. Noto il contrasto stridente tra molti giovani con abiti e i capelli “scolpiti” come i loro coetanei italiani  e molti adulti che sembrano usciti dal set di un film del Neorealismo italiano anni ‘50. Vestiti vecchi, di panno; donne con capo coperto da fazzolettoni. Anche il mercato rionale sembra la scena di un vecchio film in bianco e nero: scatole di cartone e banchetti improvvisati propongono verdure, galline, conigli, sigarette e minutaglie varie. Sulla via del ritorno, le suore vanno in agitazione: suor Manuela, alla guida dell’auto, ha intravisto per strada la vecchina che viene a pregare da loro i giovedì e i sabato! Guardo incuriosito quella figura che procede curva con un borsone di tela al braccio, poggiandosi a due bastoni (uno è un manico di scopa in plastica!). Pioviggina, devon fare qualcosa. Suor Gemma decide di tornare indietro con l’auto per darle un passaggio ed evitare che si bagni (in auto eravamo in 5). Vado con lei. Accostiamo e apro lo sportello invitando la donna a salire in auto. Non sa chi sono; non ha visto la suora alla guida, per cui mi agita in viso il bastone protestando in albanese. Non capisco un accidenti, ma le sorrido e la invito a guardare chi è alla guida. Vede la suora, capisce, mi cede i bastoni e accetta il mio aiuto per salire in auto. Continua a indirizzarmi frasi che non capisco. Suor Gemma traduce che mi ha riempito di benedizioni. Buffo! Sono sorpreso… Per una normale gentilezza mi ritrovo benedetto da costei che manco avrei notata senza le suore…  Ora l’abbraccerei. Giunti a casa, la osservo di sottecchi mentre, sola, si dirige in cappella. Si ferma davanti alla Madonnina sul vialetto; dice qualcosa alla statuina e le lascia tre caramelle ai piedi, poi entra in cappella. Deposta la borsa sullo sgabello laterale, si dirige dietro l’altare. Tocca tre volte il tabernacolo, tre volte il crocifisso
e tre volte il quadro della Vergine dicendoLe qualcosa. Torna al suo posto, apre la borsa tira fuori santini e foto di defunti, se li pone davanti sul banco e rimane sola per ore, snocciolando il rosario in attesa della messa. L’avessi vista in Italia, avrei pensato, annoiato: “bigottismo di vecchi!” Ora sono intenerito… dopo pranzo vo’ anch’io in cappella – solo – mi siedo sul lato opposto al suo e, rivolto all’altare, prego in silenzio. Una decina di minuti, la vecchina si alza e mi fa cenno di avvicinarmi. Tira fuori dalla borsa di tela due merendine e insiste che le prenda. Poi torna a pregare. Torno al mio posto confuso: l’umile, inattesa amabilità verso uno sconosciuto beffa il mio perbenismo formale. Guardo le merendine quando le cedo a suor Gemma; certo di aver ricevuto molto per il mio nulla… Stesso giorno, altra persona, Mathia: è stato chiamato dalle suore per riparare la porta d’ingresso. Sa della nostra venuta; è uno degli amici che è stato aiutato dalla nostra ONLUS nello scavo del pozzo e nell’acquisto di un motocoltivatore. Saluti, sorrisi, subito in sintonia. Nel tempo in cui va a procurarsi il ricambio, le suore mi dicono quanto ami la sua famiglia, quanto sia attento e disponibile con chiunque abbia bisogno, quanto sia in gamba come operaio. Per l’ultima  affermazione mi è bastato un occhiata e trent’anni di fabbrica. Il lavoro alla porta è più ostico del previsto; richiede un aiuto, mi offro io. Mi guarda: non si fida molto, ma non ha molta scelta. Dopo due ore la porta è ok. La pausa caffè gli serve per informarsi sul suo aiutante (età, dove lavoravo…forse non son, poi, così scarso). Arrivano Maria, suor Gemma e Donatella che colgono l’occasione di parlare con lui delle modalità per il sostegno economico di ORME DEI SERVI circa il falciaerba da aggiungere al motocoltivatore già acquistato. E’ d’accordo per la quota che gli spetta e garantisce che anche Jovelin, l’altra persona beneficiata col motocoltivatore, è d’accordo. Ci invita una sera a casa sua per vedere l’attrezzo e il pozzo. Vi andremo; osservo attrezzi e i lavori fatti a regola d’arte. Ma è lui con la sua famiglia a colpirmi. Una famiglia “aperta al futuro”, ma, nel contempo, orgogliosa della propria identità culturale: prima di entrare in casa il convenzionale brindisi di benvenuto cui si risponde con brindisi augurale. Devono essere ripetuti in casa, alzandosi in piedi dai posti assegnati intorno al tavolo per sesso ed età, tra una portata e l’altra delle vivande tradizionali. L’accoglienza ricevuta era quella riservata a cari amici in visita da fuori, non mi sono sentito accolto come uno cui render conto della mano ricevuta. Poi c’è la famiglia Zefi. Donatella te ne ha fatto un ritratto preciso e completo. Solo non ti ha potuto scrivere quanto “io” ho ricevuto da loro. Andammo a trovarli. Malgrado l’evidente indigenza, notavo una dignità non umiliata. La volontà di emanciparsi in ciascuno di loro. Mi ha fatto riflettere  il modo di ringraziare per il piccolo dono che lasciammo. Due sere dopo, la mamma e le figlie giungono ad Inshull, dalle suore, portando per noi una padellata delle frittelle fatte con l’attrezzo ricevuto da Orme dei Servi. La forma, il sapore e lo zucchero che le ricopre, mi richiamano le frittelle che, qualche nonna, ancora prepara, dalle mie parti, nelle vigilie di Natale. Loro le chiamano pettule; noi pettole… l’analogia mi ha rimandato alla consuetudine, per le nostre mamme, di inviarne una porzione alle famiglie vicine, le quali ricambiavano mandando i figli con …una porzione delle loro! Operazione finanziaria sterile e inutile, secondo gli economisti, ma per noi era un segno: riconoscere il valore della vita dell’Altro. Il viaggio mi stava cambiando il modo di guardare la gente. L’imam di Tirana per esempio. Si, un imam. Era di venerdì, eravamo a Tirana e la moschea era aperta per le funzioni. Non ero mai entrato in una moschea e volevo vedere dov’era il mirab, quel segno, quella finestrella che indica la Mecca e verso il quale – secondo il Corano, sura 19 – era rivolta Mariam di Nazareth in preghiera quando ricevette l’Annunzio che sarebbe diventata madre del profeta Issah (Gesù). Curiosità di viaggiatore! L’addetto all’ingresso era perplesso, era chiaro che non eravamo musulmani, ma parlava italiano e aveva dei figli che lavoravano in Italia… Ci fece entrare. L’imam, dal pulpito tuonava deciso (come tradusse suor Gemma e l’addetto all’ingresso ) che la fede in Dio, senza la concretezza del modo di agire verso gli altri uomini è insignificante; non basta professarla; la fede va vissuta; nel quotidiano rapporto con agli Altri. Ogni giorno! …Dimmi tu se dovevo entrare in una moschea per farmi ricordare da un prete musulmano che povero cristiano sono!… A Tirana incontriamo un ex alunno delle nostre suore che riduce il costo degli studi superiori alloggiando come volontario in un centro notturno per barboni. Ho fatto l’esperienza, per un po’ di tempo, di volontariato notturno con i barboni: buffo! l’odore che lasciano nei locali i barboni italiani o albanesi è uguale. La cosa che m’interessa mettere in evidenza è, comunque, che quel ragazzo si chiama Dario di nome, di cognome Bello, come don Tonino Bello, il nostro santo vescovo. Nel Salento è un cognome diffuso, ma non è raro in Albania… avremo parenti albanesi? Vedo che mi sto allungando, non voglio tediarti con altri personaggi che, comunque,mi porterò nel cuore. Devo parlarti di Gjorgjo Lékaj e Sadetin Taipi. Ambedue segnati dalla lunga, atroce, inumana, dittatura di Enver Hoxha. Ambedue desiderosi di raccontare, per liberarsi dai ricordi orribili di quegli anni, per affidarli alla memoria di cuori che ne possano, vogliano, condividere il peso. Le nostre suore hanno sentito più volte i loro racconti, ma non smettono di inorridire per altri episodi che vengono aggiunti ogni volta. 15-16 anni di ferocia crudele non si possono esaurire in un solo racconto. E nemmeno scrivere in un libro: sono ancora vivi i delatori, torturatori, carnefici, di quei giorni. Ancora in vita e, ancor più tragico, spesso parenti dei sopravvissuti. Vittime anche loro della follia del Male testimoniate da quanto abbiamo visto a Scutari: camere per “interrogatori”- eufemismo per non dire tortura –  e celle di meno di 2 metri per 2,50, prive di finestre e servizi igienici, in cui erano costrette  6 persone, dormendo a turno, per terra. Se una mosca fosse entrata dal buco sulla porta, sarebbe morta asfissiata! Uno di questi gulag è a Scutari. Affidato alla custodia di monache clarisse. Li trovammo Sadetin Taipi: dal 2011 voleva entrare per vedere la cella (?) nr. 10 in cui era stato rinchiuso 15 anni senza aver commesso alcun reato se non quello di amare la sua patria. Oltre il carcere, a Scutari, abbiamo visto la cattedrale intitolata alla  Patrona dell’Albania: Maria Madre del Buon Consiglio.  È su un altura. Non ricordo com’è dentro, né fuori. Quando siamo entrati, non ho guardato nulla: ero troppo intento a imprecare dentro di me verso il Cielo che permette tanto male e anche verso di te e di quelli che, come te, pensano di stare accanto al prossimo con piccoli progetti di aiuto. ORME DEI SERVI? Dopo aver viste le celle, e ascoltato ricordi di Sadetin  ero incavolato nero! Qualcuno mi doveva una risposta. L’ho avuta. Usciamo e Suor Gemma ci dice: “venite a vedere questa una stranezza” e ci porta nel piazzale davanti la chiesa dove svettano alcun alberi. Punta l’indice verso dei rami in alto. Non vedo nulla di strano, ma dietro l’insistenza della suora, noto che due robusti rami di alberi vicini sono uniti a croce. Uniti nel senso pieno del termine. Forse per lo strofinio del vento o innestati curiosamente da qualche matto, sono lì, un tutt’uno in forma di croce. Vivi, scambiandosi la linfa e la forza per reggere l’urto del vento. Era la risposta alla mia domanda di senso. A noi non ci è chiesto di cambiare il mondo, ma di cambiare il cuore. Avvicinarci all’Altro con la povertà di quello che siamo. ORME DEI SERVI fa questo. Stare vicino l’Altro con la pochezza che siamo perché non noi, ma il Signore fa grandi cose. Lo testimonia la vita di un’albanese puro sangue, Madre Teresa di Calcutta. Lo canta la Vergine dalla cugina Elisabetta. Fotografavo quei rami e pensavo che ORME DEI SERVI è un modo di rispondere all’antica domanda rivolta a Caino: “dov’è tuo fratello?” La risposta non può essere: “ sono forse io il suo custode?” ma sarà: “ è qui, Signore, vicino a me; ci teniamo per mano, come due alberi uniti nei rami. Quando benedirai lui, godrò della sua benedizione; lui parteciperà di quella che darai a me.” Le persone di cui t’ho detto e le altre che ho incontrate, le porterò nel cuore. Ci apparteniamo; so che li rivedrò; non so quando, non so dove; so solo che le ritroverò sempre vicino quando canterò   il Magnificat.

Ciao  Michè! Salutamm!

Franco

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